Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi di Marco Del Corona, corrispondente in Cina per quattro anni, raccoglie gli incontri e i colloqui con diciotto protagonisti della scena letteraria cinese. «Leggere libri di autori cinesi è un buon passo per avvicinarsi a questo Paese»

«I libri restano anche se il Paese cambia». Vale anche per la Cina, un Paese in rapida trasformazione. Parola di Marco Del Corona, giornalista, corrispondente in Cina per il Corriere della Sera dal 2008 al 2012 e scrittore, che ha raccolto in un libro le interviste a diciotto tra i maggiori e più conosciuti protagonisti della scena letteraria cinese contemporanea. Attraverso il loro sguardo, Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi (O barra O edizioni, 2015) racconta la Cina di oggi e di ieri, soffermandosi sulle tematiche più disparate.

Dalla letteratura alla storia, passando per la figura di Mao Zedong, gli anni della Rivoluzione culturale e la repressione in piazza Tian’anmen. Ma anche il ruolo delle donne e dei bambini nella società cinese, quello di internet e dei social network, la contrapposizione tra Cina rurale e urbana, la crescita economica e l’attualità politica, senza tralasciare il tema della censura, con cui gli scrittori si trovano a fare i conti nelle opere come nella vita.

Negli anni di permanenza in Cina avrà avuto l’occasione di incontrare e intervistare moltissimi personaggi appartenenti agli ambiti più disparati. Perché la scelta di raccogliere in un libro proprio i colloqui con gli scrittori?

«La Cina è un Paese in rapidissimo cambiamento, quindi le interviste non letterarie invecchiano molto rapidamente e, appena qualche mese dopo, risultano obsolete. Al contrario, le interviste agli scrittori, collocate in un ambito temporale preciso, fotografano una situazione che resta valida. Inoltre, c’è l’ancoraggio ai libri, che restano anche se il Paese cambia».

Nell’introduzione al libro scrive che l’incontro faccia a faccia con un autore di cui si sono letti i libri «finisce col mettere alla prova il rapporto di fiducia dal quale tutto ha preso le mosse». Come ne sono usciti i rapporti di fiducia tra lei e gli scrittori cinesi che ha incontrato?

«Si sono tutti in qualche modo rafforzati. Non sempre conoscere l’autore di un libro è un’operazione intelligente, perché può succedere che, nonostante si sia molto amato un suo libro, come persona risulti poco interessante o sgradevole. In questo caso non è successo e gli incontri non sono mai stati deludenti. Per me i libri degli autori cinesi sono stati uno strumento di conoscenza della Cina, quindi è stato naturale desiderare conoscerli e averli conosciuti mi ha dato degli elementi in più per valutare i loro libri».

C’è qualcuno che l’ha sorpresa particolarmente perché rivelatosi diverso da come si aspettava e dall’idea che si era fatto leggendone i libri?

«La figura più complessa è quella di Mo Yan. Dai suoi libri si percepisce una critica molto viva nei confronti della società, anche contemporanea, ma in realtà la persona è assolutamente leale e organica al potere. C’è, quindi, un profondo distacco tra la problematicità e le critiche implicite al sistema di potere presenti nei libri e quello che dice a parole».

In effetti, leggendo le tre interviste a Mo Yan inserite nel libro, le risposte sono molto stringate, in alcuni casi sembrano quasi sfuggenti.

«È verissimo. Pur tenendo conto del fatto che la seconda intervista è stata fatta via e-mail, una modalità diversa rispetto a un incontro vis à vis, evidentemente è una persona che preferisce parlare attraverso i suoi libri e vive con fastidio l’idea che qualcuno chieda alla persona Mo Yan cose che magari ha espresso in via letteraria il Mo Yan scrittore».

Il punto di vista di questi scrittori sulla realtà cinese, quindi, non sempre rispecchia quello che il lettore può trovare nei loro libri?

«Lo sguardo dei libri è infinitamente più complesso rispetto a quello che può emergere da un’intervista, che magari si svolge in un’ora di chiacchierata e senza una profonda conoscenza reciproca. Alcune interviste sono focalizzate soprattutto su un tema. Ad esempio, nel caso di Su Tong, essendo un autore a cui viene riconosciuta una grande sensibilità per i caratteri femminili, mi sembrava la persona giusta per parlare della condizione della donna in Cina dal punto di vista maschile».

Dalle interviste emergono una molteplicità di modi di essere scrittore in Cina. Troviamo, ad esempio, Acheng (autore de Il re degli alberi, Il re dei bambini, Il re degli scacchi) con un libro chiuso nel cassetto da vent’anni, Guo Jingming che «lavora a due romanzi contemporaneamente» e Han Han che sceglie l’immediatezza di internet. Oppure Mo Yan, che ambienta i suoi libri nella Cina rurale, e Hong Ying, il cui «universo mentale è urbano». Si può dire che questa molteplicità rispecchia la molteplicità di sfaccettature della Cina di oggi?

«Sicuramente è così, perché la Cina, come ogni società, è così variegata da essere difficile catturarla e fotografarla su un versante solo. Inevitabilmente c’è una polifonia, una molteplicità di voci che a volte non hanno nulla a che fare l’una con l’altra. Si prenda, ad esempio, Liao Yiwu, uno scrittore che è scappato dalla Cina a piedi. La sua visione ovviamente è diametralmente opposta a quella di chi rimane in Cina e trova i suoi accomodamenti per vivere con la censura, con il controllo dei propri scritti e, nonostante questo, ritiene che il suo posto sia in Cina».

Vista questa molteplicità che la caratterizza, la letteratura è un buon mezzo attraverso cui avvicinarsi alla Cina?

«La letteratura è un mezzo. Ovviamente il principale è quello del viaggio, della conoscenza, possibilmente della lingua, però il criterio che ho seguito di scegliere tutti autori tradotti in italiano è legato proprio al fatto che, secondo me, leggere libri di autori cinesi è un buon passo per avvicinarsi al Paese».

Nel libro spiega di aver avuto incontri che ha scelto di non includere per diverse ragioni, ma ci sono incontri che invece avrebbe voluto avere?

«Mi sarebbe piaciuto incontrare Liu Xiaobo, un critico letterario importante, che ha vinto il Nobel per la pace ed è diventato suo malgrado una figura politica perché incarcerato. Dal punto di vista della narrativa, invece, avrei voluto incontrare Wang Meng, che è stato ministro della Cultura nella prima metà degli anni ’80, quindi un esponente di quella fase di apertura, anche culturale, che molti autori, tra cui lo stesso Mo Yan, riconoscono essere stato decisivo per il mondo culturale e letterario cinese. La prima metà degli anni ’80, infatti, ha rappresentato un momento di vivacità intellettuale e creativa che poi non si è più verificato».

Vivendo in Cina per quattro anni, come è cambiato il suo modo di vedere questo Paese?

«Avvicinandosi all’oggetto della propria osservazione, si notano molte più sfaccettature di quante se ne vedano da lontano. Semplificando posso dire che mentre stando fuori si tende a criticare con grande facilità la Cina, stando lì si trovano molte attenuanti e molte giustificazioni per comportamenti e atteggiamenti che a volte risultano incomprensibili. Viene un po’ di sindrome di Stoccolma, si tende ad essere molto indulgenti e a sposare le tesi di chi si ha intorno. Diciamo, però, che il vantaggio di essere stato lungo tempo in Cina è che adesso nel guardarla tengo conto di molti più fattori di quanto può fare chi non ha conosciuto quel mondo».

Rispetto a quando è partito, come è cambiata la percezione che si ha in Italia della Cina?

«Credo che ci siano ancora molta ignoranza e molti luoghi comuni e preconcetti nei confronti della Cina, ma è un atteggiamento simmetrico e speculare rispetto a quello che succede in Cina nei confronti dell’Occidente. Come noi ragioniamo per stereotipi sulla Cina allo stesso modo i cinesi ragionano per stereotipi su di noi. Del resto i sistemi educativi e culturali sono totalmente diversi, quindi questa reciproca difficoltà è comprensibile».

Ma in base alla sua esperienza, qual è il modo migliore per superare questa difficoltà?

«Ognuno trova il suo sistema. Il mio è stato quello di tenere presente che la nostra visione è legittimamente molto influenzata dai nostri parametri culturali. Bisogna, quindi, cercare di capire che i parametri della Cina e dei cinesi sono ovviamente molto diversi dai nostri e, sulla base di questo, trovare un terreno comune di intesa».

Lea Vendramel Cina in Italia – Novembre 2015

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Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi
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